C’era una volta Lo Struscio

SepolcroA proposito di Settimana Santa e mi piace ricordare come si svolgeva a Napoli il Giovedì Santo durante gli anni ’60 e ’70, quelli della mia infanzia.

In molte famiglie c’era l’usanza di consumare cozze e “zuppa di maruzze”: un soutè fatto con le lumachine di mare. Non nella mia famiglia, dove eravamo più abituati ai piatti di carne e ai prodotti della terra, a volte provenienti da Villaricca dove i miei nonni materni possedevano dei terreni dati in affitto ai “coloni” che qualche volta regalavano un cappone, delle fave, un po’ di noci e piselli.

Tuttavia il Giovedì Santo non era importante per motivi gastronomici, bensì per lo “struscio”.

Questa parola fa ormai parte del vocabolario italiano ed indica una passeggiata per le vie del centro in una qualsiasi città d’Italia.

Tuttavia, in origine, essa si riferiva esclusivamente alla passeggiata che si svolgeva a Napoli, lungo Via Roma, occasionata dalla visita ai “Sepolcri” durante il pomeriggio del Giovedì Santo.

I Sepocri non avevano nulla a che vedere col camposanto: si trattava di altari addobbati a festa in onore dell’Eucarestia, in ricordo dell’ultima cena che Gesù consumò insieme agli Apostoli la sera del giovedì, prima che venisse arrestato e condannato a morte.

I parroci facevano a gara tra loro per far addobbare nella maniera più bella una cappella della Chiesa dove, a fianco del Tabernacolo, venivano collocati vasi ricolmi di fiori, specie di colore rosso in memoria dell’imminente passione, spighe di grano, drappeggi lussuosi.

La gente si fermava a pregare ma anche ad ammirare questi prosceni illuminati a giorno da innumerevoli candele e lampadine e gettava monete ai piedi dell’altare che poi sarebbero state raccolte dai solerti sagrestani.

La passeggiata si svolgeva lungo quella che all’epoca si chiamava “Via Roma” ma che molti chiamavano “Tulèt” in ricordo della precedente dedica a Toledo, città natale del viceré spagnolo Don Pedro.Via Roma

Oggi che la strada si chiama nuovamente “Via Toledo”, ovviamente, i napoletani preferiscono chiamarla “Via Roma”.

Quale che sia il nome preferito, la strada nasce dal Museo Nazionale e, in leggero declivio, lambisce piazza Dante o del “Mercatello”, attraversa il largo dello Spirito Santo e piazza Carità, incrocia la galleria Umberto I per sfociare, infine, in piazza Trieste e Trento (meglio nota come San Ferdinando) che prelude all’immensa piazza del Plebiscito e al mare.

Attualmente Via Roma è “ufficialmente” pedonalizzata; all’epoca veniva chiusa al traffico solo in occasione del Giovedì santo: le persone erano talmente tante che inevitabilmente si “strusciavano” tra loro.

Una volta, ma parliamo degli anni ’30 e ’40, lo “struscio” – come racconta mia madre – era l’occasione per indossare l’abito bello primaverile e, per gli uomini, per calzare sul capo la “paglietta”.

Via Roma è costellata di chiese e palazzi, tra cui l’imponente massa marmorea del Banco di Napoli, in stile littorio, nonché innumerevoli palazzi nobiliari risalenti a varie epoche, quali il palazzo Zevallos già sede della Banca Commerciale ed ora ospitante “Il martirio di Sant’Orsola”, ultima opera del Caravaggio.

Scendendo sulla destra ci sono i Quartieri Spagnoli; sulla sinistra il quartiere moderno dei “Guantai Nuovi” costruito al posto delle vecchie case in buona parte distrutte dai bombardamenti durante la seconda guerra mondiale.

Io sono nato e ho vissuto a lungo nella parte vecchia, sulla destra, per poi trasferirmi in quella nuova, sulla sinistra. Anzi, a ben riflettere, posso dire che la mia infanzia e la mia giovinezza si sono svolte prevalentemente in un triangolo attraversato da via Roma e con il Corso Vittorio Emanuele, sede dell’Istituto Pontano, Piazza del Gesù e Piazza San Ferdinando come suoi vertici.

A 27 anni sono emigrato al Vomero e, dopo qualche anno, ancora più su, a Milano.

In Via Roma ci sono innumerevoli negozi, specie quelli d’abbigliamento che oggi coincidono con i soliti marchi dell’economia globalizzata quali HM, Zara, Benetton ecc.

Una volta, invece, c’erano insegne diverse, quali quella dell’elegantissimo Gutteridge, Bambinopoli dedicato ai più piccoli, La Rinascente ed innumerevoli altri insieme a librerie, gioiellerie, pelliccerie, negozi di guanti, scarpe e borse.

Non mancavano pasticcerie e rosticcerie, come Caflish, la cioccolateria Gay Hodin, Idolo e Motta, marchio milanese che i napoletani impararono ad amare per la bellezza e l’ospitalità dei suoi locali.

Tornando alle visite ai Sepolcri, esse dovevano essere, non so per quale arcano motivo, di numero dispari.

Lungo Via Roma e nelle immediate vicinanze si potevano visitare la Madonna delle Grazie, la Basilica dello Spirito Santo, il Gesù Nuovo, Santa Chiara, Santa Brigida, San Ferdinando ed altre: per chi non lo sappia a Napoli ci sono più chiese che a Roma.

Tuttavia la mia autentica passione era la chiesa di Monteoliveto, meglio nota come Sant’Anna dei Lombardi (ecco perché sono finito a Milano: me la sono proprio cercata…!).

La chiesa è preceduta da un piccolo pronao sovrastato da un arco catalano e confina con la caserma dei Carabinieri di piazza Carità, che occupa il suo chiostro.

mazzoni - compianto sul cristo morto - napoli s.anna dei lombardiA Sant’Anna c’era e c’è tuttora la Pietà del modenese Guido Mazzoni, artista del ‘400: si tratta di un gruppo di statue a grandezza naturale in terracotta policroma, scenograficamente disposte ad anfiteatro intorno alla salma del Cristo.

Le statue rappresentano i volti di Alfonso II d’Aragona e della sua famiglia e sono dotate di grande realismo: ricordo distintamente i volti rugosi dei personaggi più anziani ed i lunghi capelli “frisé” della Maddalena.

Da bambino restavo affascinato ed impressionato dalla forza di quelle sculture, apparentemente immobili ma contorte nella sofferenza: il dolore per l’abbandono delle persone care, che conobbi solo nel ’68 allorquando la mia cara nonna lasciò Napoli e questa terra, seguita da una schiera ininterrotta di parenti, amici, conoscenti, personaggi pubblici o emeriti sconosciuti, resi famosi solo per un giorno da due colonne in cronaca.

Peraltro il Giovedì Santo non era ancora il giorno della sofferenza, bensì il suo preludio.

Durante il Venerdì Santo le campane restavano mute e i sagrestani chiamavano a raccolta i fedeli con la “trucola”: un aggeggio di legno che emetteva un rumore stridente.

Nelle chiese icone e crocefissi venivano ricoperti da drappi viola, in segno di rispetto verso Cristo morto.

Tuttavia Gesù sarebbe risorto un paio di giorni dopo e bisognava preparare la festa: per tale motivo la sera del venerdì si confezionavano innumerevoli pastiere e casatielli: all’epoca anche le famiglie borghesi come la mia erano numerose come tribù e le bocche tante.

Come fare ad infornare tante pastiere e casatielli nell’unico e piccolo forno di casa? Semplice, si caricavano in macchina e si portavano ai forni delle panetterie, quelle che quotidianamente sfornavano palate, palatoni e pani marsigliesi.

Sia il casatiello che la pastafrolla della pastiera venivano impastati con lo strutto, meglio noto come “ ‘nzogna”: la digestione forse ne soffriva un po’, ma il sapore era inimitabile.

Sono giunto alla fine della mia narrazione e chi ha avuto la cortesia e la pazienza di leggere questa mia, si chiederà se sono stato vittima di un attacco di nostalgia senile.

Più prosaicamente posso affermare che i miei ricordi sono stati stimolati dal profumo di casatiello amorevolmente confezionato da mia moglie Patrizia (con l’olio, senza ‘nzogna, ma egualmente ottimo) nonché dal profumo della pastiera che zia Marta, ottantanovenne, ha mandato come sempre da Napoli a mezzo corriere espresso, accompagnata dal graditissimo ramoscello d’ulivo, simbolo di pace e serenità.

Buona Pasqua a tutti!ricetta-pastiera-napoletana

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