Quanno nun site scarpare, pecché rumpite ‘o cacchio ê semmenzelle?

Letteralmente: se non siete ciabattini, perchè rompete le scatole ai chiodini?

Anticamente il mestiere di scarparo, ossia del ciabattino, nonostante richiedesse grande esperienza e maestria, non era dai più considerato e, al massimo, consentiva all’artigiano di sopravvivere.

In pratica bastavano pochi mezzi: una lésina per tagliare il cuoio, un martello, qualche chiodino e ‘o bancariello (ossia il banchetto sul quale potersi poggiare) e le riparazioni potevano essere effettuate…
Canzoni (come poter dimenticare Totonno ‘e quagliarella) e film (San Giovanni decollato o il Monaco di Monza di Totò su tutti) hanno fatto di questo mestiere – rispettabilissimo – l’icona della povertà e dell’indigenza: oggi, con la crisi economica in atto, tutti noi abbiamo rivalutato la necessità di affidare le nostre scarpe ad un esperto affinchè queste possano durare per un tempo maggiore agli standard ai quali siamo abituati.

Ovviamente i prezzi delle riparazioni sono andati alle stelle, come tutto quello che è necessario acquistare per garantirci un’esistenza dignitosa…

La riparazione delle scarpe non era (e non è) banale, richiedendo la massima abilità per svolgerla: in altre parole non tutti siamo in grado, neppure lontanamente, di porre rimedio a qualche improvvisa necessità, né tantomeno possiamo valutare, dal punto di vista tecnico, la riparazione effettuata.

Eppure c’è gente che deve dire la sua, controbattendo con decisione alle argomentazioni di esperti della materia in discussione.
E insistono a tal punto che ci si trova ad un bivio: assecondarle oppure mandarle a quel paese, usando magari questa colorita espressione, una della nostre preferite?

Una nota in conclusione: l’espressione non è del tutto corretta, nella differenza che esiste tra ‘o scarparo (che è colui il quale le scarpe le fabbrica) e ‘o solachianiello (ossia chi li ripara).

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