So’ ghiute ‘e prievete ‘ncopp”o campo…

Letteralmente: i preti sono scesi in campo a giocare a calcio.

Questa espressione, certamente poco frequente,  sta a significare che si sta vivendo un momento di confusione notevole, dovuta forse al fatto che i preti, quando l’abito talare era l’unico indossabile, chiamati a partecipare a qualche attività ricreativa che coinvolgeva i ragazzini, avevano non poche difficoltà di movimento, dovuto alla lunghezza dell’abito che in fondo è alquanto stretto.

I ragazzi della mia generazione ricorderanno, se non proprio l’Oratorio della famosa canzone “Azzurro” di Celentano, le domeniche fatte di Messa e partita di pallone.

La mia parrocchia era quella della Cesarea, a Salvator Rosa, a due passi da piazza Mazzini. Le settimane scorrevano, nel dopo compiti, nella sagrestia della chiesa, la quale affacciava su un campetto di calcio, ricavato tra i palazzi di Corso Vittorio Emanuele e della scuola media Alessandro Manzoni.

Un accesso ripido e pericoloso, una vecchia cripta riadattata a spogliatoio, una piccola tribunetta dalla quale poter fare il tifo: quello il nostro piccolo e pietroso Maracanà, il regalo post sacro rito domenicale.

Dismessa la cotta dai cento bottoni e il rocchetto di lino e pizzo, dopo il nostro impegno da chierichetti, correvamo tutti dietro al pallone, soprattutto per emulare i successi dei ragazzi più grandi della Parrocchia che avevano messo su una squadra niente male che diceva la sua nei tornei diocesani.

Per tutti il campetto era ‘o ciardino, il giardino. Nessun albero da frutto, nessun fiore, ma il sentimento di eden, di giardino proibito dei nostri sogni da bambini che, prima di pistole, cowboys o indiani, correva dietro ad una palla che rotolava…

A proposito: i nostri sacerdoti si guardavano bene dal contribuire al caos generale, vivacchiando sulla tribunetta, controllando che nessuno si facesse male, mandato che non sempre veniva completato con successo!

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