Comme te siente, ogge? Comme a Giacchino
Il condottiero Joachim Murat, figlio di locandieri parigini e braccio destro armato di Napoleone sin dal 1796, nel 1800 ne sposò la sorella Carolina e dall’imperatore nel 1808 ricevette l’ambitissimo trono di Napoli.
A Napoli, dopo aver italianizzato il suo nome in Gioacchino Bonaparte, fece il suo ingresso in alta uniforme e cappellone, seguito da uno sfarzoso seguito.
Nel 1812 partecipò alla campagna di Russia, al comando della cavalleria napoleonica con un contingente di soldati del regno di Napoli e, grazie alla sua carica del suo battaglione, l’armata napoleonica arrivò al Cremlino e Napoleone prese possesso degli alloggi dello zar.
Ma ben presto le sorti volsero al peggio e Napoleone affidò a Murat il comando della Grande Armèe per una ritirata onorevole: Gioacchino, però, adduraje ‘o fieto d”o miccio (ebbe sentore del pericolo) e rientrò in tutta fretta nel suo regno, comunicando all’ambasciatore austriaco di essere disposto a lasciare al suo destino Napoleone; poi, a gennaio del 1814 firmò un trattato di alleanza fra Austria e Regno di Napoli.
Quando la notizia giunse a Napoleone, questi esclamò: “…non può essere! Murat, al quale io ho dato mia sorella! Murat, al quale io ho dato un trono! È impossibile che Murat si sia dichiarato contro di me!
A Napoli, Gioacchino adottò una politica di distensione e di sviluppo, tanto che il Regno di Napoli continuò i commerci con i nemici inglesi, nonostante i ripetuti richiami di Napoleone che nel frattempo era esule nell’isola d’Elba e, quando l’imperatore riuscì a fuggire dall’isola e riconquistare la Francia, Murat mobilitò un piccolo esercito e lo lanciò alla conquista della Penisola, tradendo così, dopo Napoleone, anche il trattato stipulato pochi mesi prima con gli Austro-Inglesi. L’esercito napoletano nel 1815 invase le terre pontificie risalendo fino a Bologna; poi venne sconfitto a Tolentino. Napoleone, dal suo esilio a Sant’Elena così commentò: “Murat ha tentato di riconquistare con duecento uomini quel territorio che non era riuscito a tenere quando ne aveva a disposizione ottantamila!”
Ad agosto, Murat si rifugiò in Corsica. Nel frattempo, sua moglie Carolina si era consegnata agli inglesi e Ferdinando IV di Borbone era tornato sul trono di Napoli sulla punta delle baionette austriache. Ma re Gioacchino non voleva terminare la sua avventura su un’isola desolata: il 28 settembre, insieme ad manipolio d fedelissimi, organizzò una spedizione nel Sud Italia, per riconquistare il trono. Incappato in una tempesta, con i pochi superstiti riparò a Pizzo Calabro, dove venne arrestato dai gendarmi e rinchiuso nel carcere del castello di Pizzo.
Ironia della sorte, Murat venne condannato a morte ai sensi della legge che lui stesso aveva firmato quando era re: una legge che prevedeva la fucilazione per i colpevoli di «atti rivoluzionari»: Giacchino facette ‘a legge e Giacchino fu acciso. Ma morì da eroe: rifiutò la benda sugli occhi e comandò lui stesso il plotone d’esecuzione. “Risparmiate il mio volto, mirate al cuore. Fuoco!” 
I Napoletani lo ricordarono come un re buono, anche se tanto fesso da fare una legge contro di sé, perché -in realtà- fu l’unico succubo della legge che aveva promulgato. Il detto “Giacchino facette ‘a legge e Giacchino fuje acciso” si usa ancora oggi, quando si vuole mettere in evidenza che spesso le decisioni di una persona possono avere l’effetto di danneggiare prima di tutto chi le ha prese.

Fonti

Dai miei vecchi post e da S. De Majo, R. De Loerenzo, A.Dumas, Wikipedia et Al. modificati, immagine Wikimedia)
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