Foto di Ann — please donate da Pixabay
É di qualche giorno fa la notizia del ritrovamento, sul tetto della chiesa di San Tommaso ad Ascoli Piceno, durante alcuni lavori di manutenzione, di decine di esemplari storici di palloni da calcio, un museo a cielo aperto perfettamente integro di sfere di plastica risalente agli anni settanta, dove a farla da padrone erano i SuperTele, presto soppiantati da un più performante Super Santos, che ci ha fatto una costante compagnia nei nostri giochi da bambini.
L’immagine dell’ANSA è eloquente e non merita altri commenti.

Sempre fonte Repubblica si è aperto poi un dibattito di come il gioco del calcio fatto per le strade è ormai retaggio del passato e chi ha la passione per questo gioco deve pagare per poter accedere alle scuole calcio (magari molti genitori sperano un giorno di diventare procuratori dei propri figli, modello Mino Raiola, per sistemare economicamente le prossime dieci generazioni).
Finisce così che i meno abbienti, ma più bravi, non riescano a dimostrare tutto il loro valore, finendo retaggio di qualche dirigente poco onesto.
Io ritengo di essere stato fortunato perché sono nato e cresciuto con il mito d’ ‘o pallone giocato tra le strade, tra le macchine, dove passavano persone, ma noi ragazzini dei primi anni sessanta, eravamo focalizzati solo su quella sfera che rotolava.
Noi eravamo (con i dovuti distinguo) quelli che Fabio Cannavaro, in due parole, ci ha descritto nella pubblicità di Sky di qualche anno fa, che voglio riproporvi.
Io ho giocato quando alcune chiamate… arbitrali (l’arbitro era sempre il giocatore con maggior carisma che decideva per tutti, ma a suo favore) derivavano ancora da regole imposte dai maestri del calcio inglese. Chiamavamo il fallo di mani heinze (che derivava dall’inglese hands) e la rimessa laterale “auti” (sempre dall’inglese out-in).
Molta della mia formazione calcistica l’ho avuta a piazza Mazzini, nella confluenza tra il Corso Vittorio Emanuele e via Salvator Rosa dove ci allenavamo nei pressi dell’ufficio postale che, come la chiesa di Ascoli Piceno, aveva un ampio terrazzo che raccoglieva i palloni che, nella foga del gioco, finivano lì.
Era una vera fortuna avere un compagno di giochi arrampicatore che era il nostro eroe soprattutto quando, accedendo dalla vicina stazione di posta pneumatica, riusciva ad arrivare sul lastrico solare, recuperando anche altri reperti, giocoforza lasciati lì.
Non sempre aspettavamo il pomeriggio per giocare, quando calavano le serrande dell’Ufficio Postale, che ci servivano per affinare la nostra arte di tiratori di punizioni e di calci di rigore (a porta ci andava sempre il più scarso della compagnia).
Tre contro tre, portiere volante, le sponde dei muri perimetrali utilizzabili e passavamo ore a distruggere scarpe e a sbucciare ginocchia.
Ci allenavamo nel doposcuola con l’intenzione di progredire aumentando i livelli di difficoltà, auspicando una partita nel bosco di Capodimonte o nel campetto della Cesarea, che si trova alle spalle della vicina Basilica della Madonna della Pazienza.
Se con lo schema de “alla viva il parroco” riusciva a salvare la palla, sui tiri secchi il rischio era che la palla finisse in una vicina vanella, dove il rischio di recupero era che i topi giganti (si, le famose zoccole) che lì stazionavano avrebbero finito noi!
Quanti recuperi fatti sotto le autovetture dove uscivamo, nel migliore dei casi, unti dall’olio di lubrificazione.
E se tutto andava bene c’era sempre un zelante vigile urbano, abilissimo nell’apparire all’improvviso, a sequestrare il pallone, procedendo alla sua immediata distruzione (la minaccia a cui seguiva la distruzione era “v’ ‘o schiatto ‘o pallone”).
Per noi che avevamo messo pazientemente da parte tutte le cinque e dieci lire che potevamo risparmiare per poterci comprare dopo qualche mese il Super Santos, era un’autentica tragedia, che tuttavia non ci deprimeva. In attesa di trovare qualche sponsor per l’acquisto del nuovo pallone, facevamo una palla con quello che trovavamo, un po’ per dispetto ed un po’ per passione, continuando imperterriti a darcele di santa ragione o, magari, viravamo su altri giochi che la nostra fervida immaginazione riusciva ad inventare su due piedi.
Credete, quindi, che la notizia pubblicata su tanti quotidiani mi abbia lasciato del tutto indifferente? Niente affatto: è stato un piacevole tuffo nel passato, quello dei primi anni sessanta, dove, lo dico con orgoglio, ho vissuto, insieme a tanti ragazzi della mia generazione che chiamiamo oggi con un dovuto inglesismo boomers, uno dei periodi d’oro della nostra epoca.