Bbona jurnata, trasite, ‘o vvulite ‘nu cafè?
Note su “’a crianza napulitana” e … non solo, con ricca appendice su ‘o café
Presentazione
Questo post mi è stato ispirato dalla lettura di un testo su “Napoli e gli stereotipi dell’accoglienza” di un medico igienista e scrittore, Michele Morandi, napoletano trasferitosi da giovane a Torino che definisce uno stereotipo l’affermazione di Goethe: “I napoletani sono tra le persone più accoglienti al mondo. Ti fanno sentire a casa!”.
Per il medico-scrittore, l’affabilità è apparente, è una sorta di testimonianza di un passato ormai superato, perché -tranne occasioni sociali particolare e collettive- ogni napoletano vive rinchiuso nel proprio “circolo magico”, dove gli estranei non entrano.
Dato per scontato che negli anni 2000 in tutto il mondo ciascuno difende la propria privacy e che spesso, per motivi contingenti, viene meno ai doveri formali dell’accoglienza casalinga, ritengo che le osservazioni del dott. Morandi esulino da quello che per me è la vera, autentica “crianza napulitana” in cui gioca un ruolo importante l’empatia, cioè la capacità e la voglia di “mettersi nei panni dell’altro” percependo, in questo modo, emozioni, pensieri e anche condividendo con l’estraneo – e perché no? – ‘nu café .
‘A crianza
Potremmo, in modo sbrigativo, tradurre il termine con “buona educazione”, ma ‘a crianza napoletana è qualcosa di più: il termine. come spiega l’etimologia, ci arriva dal latino cria attraverso lo spagnolo criar (allevare, educare) e rappresenta il complesso delle maniere di una persona ben educata; compitezza, gentilezza, cioè il contrario della sola <apparenza> e men che meno “mala crianza”.
Derivato dal sanscrito “kar – kartr“, (colui che genera), mutuato nel greco κραίνω (kraino), (fare, realizzare) e nel latino (creare, crescere), il lemma viene inteso in senso ampio come quella forma di nobiltà morale ed educazione che si sviluppa attraverso un lungo processo di crescita, a più fasi educative: comincia da quando si è “creaturi” e poi, per gradi, si amplia e può avere esiti differenti: positivi (bbona crianza) o negativi (mala crianza).
In particolare, ‘a crianza:
Nella Napoli del tempo il processo avveniva a tavola, non con le regole odierne del galateo, ma con l’usanza napoletana (da tempo superata) di lassà ‘o muorzo d”a crianza: infatti, era considerata buona educazione lasciare l’ultimo boccone della pietanza nel piatto.
L’usanza, detta anche “morso dello scarparo” si rifaceva alla leggenda di un ciabattino che, invitato a pranzo da gente più benestante di lui, lasciò nel piatto l’ultima forchettata di cibo per non fare la figura dell’affamato che divora ogni cosa.
Torniamo al café del titolo del post: la storia ci dice che nel 1570 il medico e botanico padovano Prospero Alpini, giunse in Egitto come medico personale del console Giorgio Emo, inviato al Cairo dalla Repubblica di Venezia. Durante il suo lungo soggiorno egiziano, studiò la flora e la fauna del paese, prendendo nota dei differenti usi terapeutici e scrisse due trattati (1591 e 1592) dedicati alla medicina e alle piante egiziane; in particolare, fu il primo europeo a fare una descrizione accurata della pianta del caffè, a raffigurarla in una tavola botanica, a raccontare che gli Egiziani ne tostavano i semi e ne ricavavano una bevanda sostituiva del vino.
Rientrato a Venezia, diffuse le sue conoscenze: così si diffuse l’importazione di caffè che era venduto in farmacia ad un costo molto elevato che solo i ricchi potevano permettersi; bisognò attendere il 1630 perché nascesse la prima bottega per la mescita pubblica del caffè’, in breve moltiplicatasi a dismisura … La bevanda fu boicottata dalla Chiesa come eretica fino a quando il papa Clemente VIII dopo averla assaggiata, approvò il suo uso.
Ma Napoli fu una delle città d’Europa dove la diffusione del caffè arrivò più tardi: infatti, l’ufficialità nel 1768 avvenne quando deve a Maria Carolina D’Asburgo-Lorena, sposa di Ferdinando di Borbone, introdusse l’usanza già affermata a Vienna. Poi, nella diffusione del caffè nella Napoli al di fuori della Corte, nelle case altolocate e infine dappertutto, fu determinante nel 1819 l’invenzione della cuccumella (diminutivo di cuccuma, dal latino cucŭma, grande vaso), cioè la caffettiera napoletana che sostituì il metodo di preparazione attraverso la decozione alla turca (bollitura) con quello di infusione alla veneziana (con il doppio filtro); la “Moka”, inventata a Torino nel 1884, arrivò a Napoli nel Novecento.
‘E secrete d’’o café napulitano
Il caffè napoletano è “speciale” a causa di molti fattori (spesso segreti e destinati a pochi):
1. ll’acqua, che a Napoli ha qualità organolettiche uniche, ed è di solito di ottima qualità.
2. ‘a macinatura d’’o café, che deve avere una grana non troppo grossa, né troppo sottile, peri a quella ottenuta con un macinino manuale;
3. ‘a cuccumella , o la successiva “Napoletana”, inventata proprio a Napoli dal francese Jan Louis Morize nel 1819. Originariamente in rame, poi in alluminio, l’utilizzo la nuova macchina cambia completamente il modo di preparare la bevanda. La polvere di caffè, macinata in grana più grossa, non è più bollita nell’acqua ma portata ad ebollizione nella caldaia; poi, capovolgendo la macchina, passa per caduta attraverso il filtro contenente il caffè e quindi nel raccoglitore.
4. la scelta delle miscele di più specie: circa il 70% di arabica e il rimanente di altre qualità (Arrow, Liberica, Excelsa e soprattutto Robusta);
5. il giusto livello di macinatura e un metodo di tostatura lento, che amalgami i sapori e aromatizzi gli oli essenziali contenuti nei chicchi, che devono scurirsi fino ad annerirsi;
6. l’effetto psicologico dell’attesa per il lungo rito della preparazione che insieme all’atto finale -lento e cadenzato- della degustazione caffè, completano la goduria.
Storia di canzoni napoletane sul caffè.
La prima canzone napoletana dedicata al caffè risale al 1891: scritta da tal Albertin intitolata ‘A cafettera e introduceva un tema che ritroveremo in altre canzoni successive: la bellezza della barista che fa invaghire i suoi clienti. “Cafettera, cafettè/damme ‘na tazz’ ‘e cafè/bona e doce com’ a te”.
Stesso titolo e medesima ambientazione umoristica per un brano del 1892, con testo di Bonenzio e musica di Segrè: “Io sto dint’ ô Cafè sempe assettate/nun faccio niente cchiù, nun arreposo/c’ ‘a tazza mmano sto tutt’ ‘a jurnata”. (è da notare che i ritrovi che in inglese erano detti <bar>, ma a Napoli -e non solo- erano chiamati soprattutto <Caffè>).
La fama di queste canzoni si esaurì quando fu composta la celeberrima “‘A tazza ‘e café” sembra ispirata dalla bella ma scorbutica Brigida, cassiera del Caffè Portorico di Napoli.
Eccone in breve, la storia: Giuseppe Capaldo compose, in pochissimi minuti, i versi della canzone, che fu poi musicata “a tarantella” da Vittorio Fassone e pubblicata nel 1918.
Il testo è tutto un gioco di allusioni nascoste in un invito amoroso: perché l’ammore -comme ‘na tazza ‘e café- va consumato fino in fondo, dove c’è più gusto e dolcezza. I versi recitano: “Ma cu sti mode, oje Bríggeta/tazza ‘e café parite:/sotto tenite ‘o zzuccaro,/ e ‘ncoppa, amara site… /Ma i’ tanto ch’aggi”a vutá, e tanto ch’aggia girá…/ ca ‘o ddoce ‘e sott”a tazza/ fin’a ‘mmocca mm’ha da arrivá!… (Ma con questi modi, o Brigida/ una tazza di caffè sembrate/ sotto avete lo zucchero/ ma sopra siete amara…/ Ma tanto che lo girerò e lo rigirerò…/ che il dolce sul fondo della tazza / fino in bocca mi arriverà>.
La canzone ebbe un grande successo: fu ripresa magistralmente da Roberto Murolo; ed anche ispirò “’O café” di Modugno e Pazzaglia, che – a sua volta – diede uno spunto a Fabrizio De André nella sua canzone “Don Raffaé”: dedicata al brigadiere del carcere napoletano di Poggioreale Pasquale Cafiero, recita: “Ah che bell’ ‘o café, pure in carcere ‘o sanno fa, cu ’a ricetta ch’a Ciccirinella, compagno di cella, ci ha dato mammà”.
Termini e frasi della lingua napoletana che oggi sono utilizzati dai baristi di tutta Italia
1) Questo caffè è ‘na ciofeca, cioè questo caffè è una schifezza (ciofeca, dallo spagnolo chufa) indica una bevanda di sapore cattivo: altro che caffè lungo …
Nato probabilmente a Napoli, diventò <nazionale> quando Totò nel 1956 lo utilizzò nel film “Totò a colori” e viene ancora oggi utilizzata per bollare un caffè non buono.
2) Comm’ cazz’ coce (<come cazzo scotta>): espressione spesso pronunciata nei bar dai clienti che si scottano le labbra con la tazzina calda. Nella tradizione partenopea, infatti, non solo il caffé, ma anche la tazzina deve essere molto calda, per non far subire alla bevanda uno shock termico che potrebbe alterarne aroma e gusto. Di qui l’ordinazione precisa di un caffè con le “tre C”.
3) ‘O ‘ccafé a ‘dda scennere comme ‘na coda ‘e zoccola: “il caffè deve scendere come la coda di un topo”: il caffè è realizzato a regola d’arte se fuoriesce dalla macchina da bar, in 25-30 secondi: nei primi secondi il caffè deve scendere a gocce; successivamente deve rallentare l’uscita formando una scia di liquido che ricorda la coda di un topo.
4) Rito. Per i napoletani bere un caffè costituisce vero e proprio rito, attimo da auto-dedicarsi, pretesto per condividere, momento per chiacchierare, scambiare confidenze, ridere insieme.
Bere il caffè da soli “è il massimo della solitudine” come affermava Massimo Troisi nel suo secondo film <Scusate il ritardo”.
5) Caffè sospeso. Si tratta di un gesto di generosità “lassà pagato ‘nu caffè”” per un avventore povero n’canna. Luciano De Crescenzo, descrive questa consuetudine – nata nella seconda metà dell’800 e a lungo dimenticata – con queste parole: “Quando un napoletano è felice per qualche ragione decide di offrire un caffè ad uno sconosciuto perché è come se offrisse un caffè al resto del mondo!“.
6) Amore. Se la preparazione del caffè, non è fatta seguendo le regole e con amore, diventerà “’na ciofeca“, di cui al punto 1. Chi prepara il caffè deve farlo con amore, che si trasmette a chi lo beve.
7) Caffè “’a manto ‘e monaco”: essenziale è il colore del liquido, che deve essere di colore marrone come il manto di un monaco: la definizione, coniata da Eduardo De Filippo, fu ripetuta poi da Sophia Loren nella trasposizione cinematografica di <Questi Fantasmi> del 1967.
8) ‘O ccafè sape e scarrafone”: “il caffè sa di scarafaggio” , come afferma Eduardo De Filippo in “Natale in casa Cupiello” per qualificare, ovviamente negativamente, il caffè della moglie troppo scuro, perché bruciato.
9) ‘A tazzulella ‘e cafè: “la tazzina di caffè” ha dato il titolo ad una delle canzoni più popolari del grande Pino Daniele.
Finale con biografia e curiosità di e su Giuseppe Capaldo.
Nato a Napoli il 21 marzo 1874, da Raffaele e Filomena Giannalli, proprietari della trattoria “Piliero”, fu il primo di 5 figli e a 6 anni fu mandato in collegio. Dopo la licenza elementare, ritornò a casa per aiutare i genitori nella trattoria.
A 18 anni Giuseppe si innamorò di una ragazza, Vincenzella, senza essere corrisposto Giuseppe e lo ignorava. In suo onore compose i versi di una canzone dal titolo “Comme facette mammeta“, che inviò ad un Comitato di festeggiamenti per la Madonna del Carmine: la canzone fu giudicata la migliore e fu musicata dal maestro Montagna.
Ma Vincenzella non gradì il corteggiamento musicale di Giuseppe perché innamorate del fratello Pasquale, anche lui cameriere. Giuseppe non sopportando di vivere accanto a Vincenzella come cognato, lasciò la trattoria paterna e si impiegò come cameriere in vari locali.
Dopo un’esperienza in un ritrovo con l’orchestrina, che si chiamava Turco poi – dopo la spedizione coloniale – Caffé Tripoli), approdò al “Caffè Portorico”.
(Ah, che bellu ccafé! Sulo a Napule ‘o ssanno fá… e nisciuno se spiega pecché/è ‘na vera specialità… pe bevere ‘o ccafè se trova ‘a scusa:” Io ll’offro a n’ato e n’ato ll’offre a me… Nisciuno dice “no” pecché è n’offesa: só’ giá seje tazze e sóngo appena ‘e ttre…)

Fonti

Pagina Facebook Etimologia delle parole napoletane
Da molti testi articoli e saggi: M. Sergio, A.Forgione, L. Odell, J.Hoffmann, M.Terzi, A.Cuomo e A.Muzio, S.E. Allen, F.Motta e R.Guereschi;M.Pollen et Al; numerosissimi articoli; Wikipedia, modificati).
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